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Domenico Beccafumi ( Siena 1484-1551)

Venere distesa con due amorini, 1510-12 circa
Olio su tavola, cm. 73×57,3

Il dipinto, comparso sul mercato antiquario tra il 1967 e il 1976 e proveniente da una collezione privata a Budapest, è la parte fram­mentaria di una composizione più ampia che doveva costituire, un elemento decorativo d’arredo, con ogni probabilità la spalliera di un letto. Lo confermano le misure di oggetti consimili che videro un’ampia produzione e diffusione a Siena nelle dimore patrizie a partire dai primi anni del Cinquecento fino alla metà del secolo ad opera di artisti ed artigiani dell’epoca. Nei pannelli oggi conservati, come negli esemplari della Collezione Chigi Saracini a Siena  si ripete più volte l’immagine di una figura femminile distesa, dipinta in pannelli di circa 150 cm. di lunghezza, che corri­spondono esattamente ad un terzo della nostra tavola; si deve quin­di pensare a una resecazione del supporto ligneo per ricavarne la sola parte iniziale del busto di donna con due amorini, eliminando i due terzi residui o per motivi di conservazione o per semplice cambiamento del gusto e dell’uso originario dell’opera, ora ridotta a quadro da parete. Il soggetto raffigurato, una figura femminile distesa, è da identifi­carsi con una Venere, come dimostrano gli attributi a lei collegati: il ramoscello di mirto, pianta sacra alla dea, che stringe nella mano destra e l’elmo posato a terra, allusivo a Marte, su cui poggia il braccio; soggetto del resto più volte replicato in elementi d’arredo analoghi, e con poche varianti per le dimore patrizie senesi. Il volto assorto della donna, ombreggiato da sfumature ancora di reminiscenza leonardesca si distingue dai putti caratterizzati da profili affossati, ampie fronti, sorrisi stirati e ambigui, con le teste percorse da un intreccio fitto di riccioli biondi. Una innegabile compattezza di elementi che inducono a collocare l’opera intorno al 1510-1512. Senza dubbio la tipologia dell’oggetto e la sua iconografia costituirono i modelli di riferimento per una ampia serie di derivazio­ni, la cui fortuna arrivò almeno alla metà del Cinquecento.

Pur pervenutaci in uno stato conservativo non perfetto, la tavola rivela tutto il fascino di una raffigurazione attenta alla sottolineatura dei particolari raffinati: si osservino le perle di lacca rossa raggruma­ta che andavano a formare il sottile profilo di un velo trasparente oggi quasi scomparso; il lucido bagliore che illumina l’elmo metal­lico, la stesura liquida della lacca che delinea sul drappo di seta steso a terra effetti di cangiantismo, nelle sfumature del rosso. La pittura è stesa in maniera estremamente sciolta, con pennellate rapide su uno superficie quasi priva di preparazione e in addensamenti di colore che si raggrumano nella descrizione delle foglie in un verde brillante. La velocità d’esecuzione certo dovette corrispondere alla natura di oggetto d’uso destinato alla decorazione abitativa e come tale realizzato in grande libertà di tratto.

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